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19/04/12

La grande distribuzione: nessun equivoco se si sceglie "bio"

Sull’alimentazione responsabile molti dei rischi di fraintendimento ed errore spariscono se si fa riferimento solo ai prodotti con la certificazione Ue e si scelgono i canali di distribuzione che privilegiano i rapporti con il territorio ed i produttori locali. Le ricette di Coop e Naturasì.


C’è un preciso limite alla genericità, lo sostiene uno dei protagonisti della distribuzione italiana. Cibo naturalebiogenuinochilometri zero: cosa significano questi termini per CoopClaudio Mazzini, responsabile sostenibilità, innovazione e valori dell’azienda è convinto che non si rischino equivoci. «Le tre denominazioni – spiega – hanno storie e vissuto completamente diversi. La definizione di biologico non ammette alcuna possibilità di errore: ci sono riferimenti molto precisi sia in termini di normativa europea che nazionale, e poi un sistema di monitoraggio e controllo a cura del ministero delle Politiche agricole che fanno sì che non ci siano dubbi». La confusione nella percezione del consumatore? «Tendenzialmente più ridotta, c’è sempre meno spazio per i furbetti, che finiscono per avere un ruolo molto marginale. E una funzione positiva l’ha giocata in questi ultimi mesi anche l’autorità preposta al controllo sulle comunicazioni, che ha comminato sanzioni e multe pesanti a chi non ha usato la dovuta chiarezza. E poi i consumatori di oggi, in primis quelli di questa tipologia di prodotto, s’informano costantemente sulla rete, ed è controproducente non essere rigorosi».


grande distribuzione biologico
Approccio simile per un altro player chiave di questo mercato. «Tutto quello che è possibile sia “bio” da noi lo è» spiega Edoardo Freddi, responsabile marketing di Naturasì, che sottolinea come negli oltre 90 negozi del marchio storico della distribuzione specializzata in Italia sia stato risolto alla radice ogni eventuale dubbio del consumatore sulle caratteristiche e le certificazioni dei prodotti che compra. «È bio tutto l’alimentare, dall’ortofrutta alle farine passando per i salami, con alcune rarissime e giustificate eccezioni». Una tra tutte è ilsale marino (mitico quello grigio della Bretagna), che non può essere certificato, ma si tratta in tutto di quattro o cinque referenze con queste caratteristiche particolari, annegate in un mare magnum a tutti gli effetti “bio” di 4000 prodotti e passa. In tema di rischio di confusione sul cibo bio e quello che invece è più genericamente presentato come naturale o genuino – secondo Freddi – i problemi vengono anche dall’oggettiva difficoltà per il consumatore di acquisire tutte le informazioni di base e la preparazione “culturale” necessari per fare un acquisto realmente consapevole. «Così – aggiunge – acquistare un prodotto certificato bio, comprarlo nella distribuzione specializzata, conoscere bene la marca o il produttore finisce per essere il meccanismo più sensato utilizzato». Freddi sottolinea il punto: «È fondamentale per noi fare informazione sui produttori. Non compriamo nei grandi mercati, i nostri interlocutori hanno tutti una faccia e un nome. Un patrimonio di fiducia e un legame stretto con il territorio e chi produce davvero secondo certe regole che i nostri clienti indubbiamente apprezzano».
Torna al tema della confusione semantica Mazzinidi Coop. Genuino di per sé «non significa nulla», commenta il manager. E aggiunge che anche utilizzando “chilometri zero” si entra in un’alea di possibile discrezionalità. Si entra nello spazio, legittimo, del marketing e della comunicazione, ma senza che si sia supportati da alcuna certezza di dettaglio su quanta qualità ci sia realmente sotto. «Ma attenzione – avverte Mazzini – fa parte del nostro dna e della nostra mission valorizzare le vocazioni territoriali e i prodotti tipici e tradizionali che magari non sono marcati Dop o Dgt, ma che hanno una storia e caratteristiche qualitative importanti e sono certamente prodotti con alle spalle un basso livello di industrializzazione. E fa parte della nostra missione aziendale e non solo del nostro posizionamento mettere a disposizione dei clienti, specie nel comparto topico dell’ortofrutta, prodotti che per il 90% sono di produzione nazionale e per il 40% vengono addirittura coltivati nella stessa regione del supermercato che li commercializza».
Mazzini vuole però precisare un aspetto: «Il concetto di chilometri zero non va stressato, non si può sempre attingere alle produzioni locali anche perché altrimenti si entra in una logica regressiva, eccessivamente autarchica. Io, ad esempio, sono di Bologna e se dovessi basare la mia dieta di ortofrutta sui cibi a chilometri zero in senso stretto, da novembre a marzo dovrei mangiare solo i pochissimi prodotti che la stagione consente. L’accezione di “chilometri zero” va relativizzata – insiste il manager – nel senso, che va intesa tenendo bene a mente tutto quello che significa per il consumatore. Vanno contati i chilometri relativi,dando un peso significativo ai valori della sicurezza, della qualità, del rispetto dell’ambiente. Che valgono come, e spesso di più, della mera distanza in termini assoluti. Ambiente, economia e società sono le tre gambe della sostenibilità e a questo proposito – conclude il manager – va registrato che da noi i prezzi dei prodotti bio non superano mai quelli dei migliori prodotti “normali”».
Dall’altro lato della barricata distributiva, Freddi non si esime dal rimarcare il ruolo positivo che la Gdosta giocando nel comparto. E ammette: «Il risultato di questo interesse e impegno è una maggiore competitività – sottolinea Coop – che impatta sui prezzi, ribassandoli, finendo per intervenire su uno dei fattori critici che al momento non influisce in positivo sulla crescita della domanda».
Ma Freddi avverte: «È sbagliato pensare che il singolo prodotto biologico possa costare quanto il convenzionale. Il costo della coltivazione sostenibile è inevitabilmente più alto. Faccio un esempio banale: se devo togliere le erbacce da un campo, con un normale diserbante spendo solo 150 euro per ettaro. Se invece voglio evitare di avvelenare la terra e voglio fare nella maniera giusta, devo pagare per un’intera giornata tante persone e certamente il costo dell’operazione è diverso e la ricaduta sul prezzo inevitabile. Il prodotto migliore, oltretutto, ha fisiologicamente una resa più bassa». Ma il gusto è diverso. «Stiamo facendo un grosso sforzo sull’orto frutta, perché la differenza della qualità viene immediatamente percepita, non c’è paragone – assicura Freddi – tra il sapore di una mela bio e quello di una convenzionale da supermercato».

Officina Roma, la mia casa nel cassonetto


casa rifiuti
Il sogno di una vita a basso impatto finisce nel cassonetto insieme alle materie prime, agli elettrodomestici, ai vestiti condannati ad una morte precoce. A recuperare, simbolicamente, le potenziali case finite in discarica, il laboratorio tedesco Raumlaborberlin. Dai rifiuti è nata un’installazione, la villa Officina Roma, eretta nel piazzale del MAXXI, costruita in una sola settimana grazie al lavoro di 24 studenti delle scuole superiori, provenienti da ogni parte di Italia. Un esperimento architettonico che ovviamente non ha la presunzione di proporsi come soluzione abitativa nella vita reale, bensì punta a sensibilizzare alla cultura del riciclo, contro gli sprechi, evidenziando quanti oggetti e materie prime ancora utili finiscono nel cassonetto. Ricorda un po’ il castello di rifiuti di Victor Moore, emblema di una favola consumistica finita nell’immondizia.
Officina Roma si compone di una camera da letto, di uno studio e di una cucina. Un collage trash a testimoniare il mix piuttosto eterogeneo di materiali, mobili e scarti che si trovano nelle discariche. La cucina è realizzata interamente con vecchie bottiglie; la camera da letto con portiere di auto usate a far da pareti; il tetto è stato ricavato dall’assemblaggio di vecchi barili di petrolio. Gli interni puntano su un arredamento vintage con vecchie finestre di legno, ante di armadi, cantinelle e travi di legno, mobili usati. Sono stati impiegati anche materiali provenienti da vecchie installazioni del MAXXI. Se volete ammirarla dal vivo la trovate al MAXXI di Roma fino al 20 maggio, all’interno della mostra RE-CYCLE. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta.
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Via - Foto | Raumlabor

El Hierro, l'isola che punta all'autosufficienza energetica con una centrale idroeolica


el hierro
El Hierro sta per portare a termine l’ambizioso progetto di cui vi parlavamo noi di Ecoblogqualche anno fa. Leggo sul portale dell’IUCN che El Hierro, già riserva UNESCO, si candida infatti a diventare la prima isola autosufficiente al mondo a partire dalla fine del 2012.
El Hierro, situata nell’Oceano Atlantico, fa parte dell’Arcipelago delle Canarie, comunità autonoma della Spagna. Conta diecimila abitanti su una superficie di 269 km2. Il 59% dell’isola è costituito da riserve naturali protette, ma è nel restante 41% che si sta giocando la sfida dell’autosufficienza energetica.
Dieci anni fa l’isola ha avviato infatti un ambizioso percorso di transizione energetica: dai fossili che alimentavano l’unica centrale elettrica dell’isola alle rinnovabili. Una politica di approvvigionamento energetico appoggiata dal Governo delle Canarie e fondata su più energie alternative, dal momento che puntare tutto su una sola fonte poteva essere rischioso.
L’approvazione del Piano di Sostenibilità ha portato alla costruzione di una centrale idroeolica che dovrebbe coprire l’80% del fabbisogno di energia elettrica di El Hierro, a partire da fine 2012, quando termineranno i lavori. Il restante 20% proverrà da parchi fotovoltaici.
Rinnovabili El Hierro Rinnovabili El Hierro Rinnovabili El Hierro Rinnovabili El Hierro
Foto | City council El Hierro; Gorona Wind El Hierro