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09/05/12

Da Adidas a Philip Morris. Ecco le risposte delle multinazionali alle accuse di sfruttamento


sfruttamentoSono i brand per noi più noti, che stanno alle spalle dei prodotti che compriamo ogni giorno e che percepiamo come indispensabili. Ma spesso quei prodotti sono passati tra le mani di lavoratori ridotti in schiavitù, con paghe da miseria e bersaglio di continue umiliazioni e molestie.
Quando si pronuncia la parola “schiavismo” spesso si pensa ai popoli dei Paesi in via di sviluppo, senza però ricordare che sono proprio loro a lavorare in condizioni di sfruttamento perché noi e in senso lato l’Occidente abbiano a disposizione i prodotti dei quali siamo dipendenti. Parliamo anche di bambini, naturalmente, le cui famiglie non possono permettersi di pagare per loro l’istruzione così come la conosciamo noi e sono costrette a farli lavorare da subito.
Spesso però emerge questo sottobosco e vengono chiamate a risponderne le grandi multinazionali, i brand che conosciamo da anni e che dominano sul mercato. A spese proprio dei Paesi in difficoltà, dai quali attingono materie prime e manodopera a basso costo.
Tutti ricordiamo uno dei casi che ci ha toccato da vicino, quello di Rosarno, dove gli immigrati africani sono stati letteralmente ridotti in schiavitù nel processo di raccolta delle arance destinate alla produzione di Coca Cola. La multinazionale si è limitata però a tentare di preservare la propria immagine, scrivendo la parola fine sugli accordi commerciali con le aziende calabresi, additate quindi come responsabili delle condizioni di lavoro disumane nel corso della raccolta.
Il mondo della moda non è certo immune a queste pratiche. Il brand Victoria’s Secret, famosissimo per i suoi capi di lingerie e per aver utilizzato l’immagine delle più celebri top model per presentarli sul mercato, è sotto inchiesta per una storia di sfruttamento che parte dal Burkina Faso.
E’ da lì che proviene infatti il cotone biologico che il brand si vanta di utilizzare come simbolo di qualità. Peccato che quel cotone sia seminato e raccolto anche da tredicenni come Clarissa, una ragazzina africana che avrebbe subito anche percosse e maltrattamenti fisici perché portasse a termine il proprio lavoro. Come l’hanno presa a Victoria’s Secret? Semplice, hanno eliminato “fair trade” dalle loro etichette.
Altri bambini – almeno 72 di appena una decina di anni, come si legge sulla stampa estera – avrebbero lavorato nel 2010 nella raccolta del tabacco utilizzato poi dalla Philip Morris. Non soltanto hanno lavorato in condizioni disumane, ma hanno rischiato un avvelenamento da nicotina. La stessa Philip Morris è accusata di sottrarre i documenti ai lavoratori e di farli lavorare senza paga. Il caso della produzione di sigarette resta comunque tra i più dibattuti e sono molti i marchi coinvolti, da Marlboro a Chesterfield, da Merit a Benson & Hedges. Proprio quelli che molti fumatori italiani conoscono benissimo.
Accade in Occidente, ma spesso è la Cina ad essere tenuta sotto osservazione (soprattutto i brand di telefonia mobile) e ad essere emblema dello sfruttamento, secondo i luoghi comuni. Il caso della Kye dimostra che effettivamente molti cinesi sono in balia dello sfruttamento. Per intenderci, si tratta di un’azienda che produce componenti per big come la Microsoft e che nel 2010 ha assunto 1000 studenti tra i 16 e i 17 anni perché lavorassero15 ore al giorno, per 7 giorni su 7. Molte volte sono stati coinvolti anche ragazzini di età inferiore e donne per un salario che si aggirava attorno ai 65 centesimi all’ora.
Altro caso tristemente noto, quello legato alle Olimpiadi di LondraAdidas ha presentato la collezione disegnata da Stella McCartney per la divisa olimpica degli atleti britannici e ha utilizzato lavoratori pagati meno di 50 centesimi l’ora. La multinazionale ha bollato questi casi come “eccezione” sottolineando che gli straordinari devono essere assolutamente volontari, ma non è servito a destare, se non altro, qualche preoccupazione.
Tutto è partito da un reportage di Kathy Marks dell’Independent, che in Indonesia, a Tangerang, ha appunto scoperto dove e come Adidas utilizza alcune fabbriche in appalto per la sua produzione di scarpe e abbigliamento sportivo. Ebbene, gli operai indonesiani, oltre ai soprusi verbali e fisici di vario genere, se la vedevano con 65 ore alla settimana di lavoro massacrantee punizioni per il mancato raggiungimento degli obiettivi di produzione. Si attendono ora gli esiti dell’inchiesta del Locog, il comitato organizzatore di London 2012.

Auto elettriche: con il nuovo standard J1772 ricariche in 15-20 minuti


Lo standard J1772 per la ricarica delle auto elettriche esiste da alcuni anni, ma ora è concreta la possibilità di estenderne la capacità voltaggi e amperaggi superiori, che renderanno la ricarica dei veicoli elettrici assai più veloce. Questo significa anche che la “spina” diventerà più grande e dall’aspetto inquietante, ma ricordiamolo: infinitamente più ecologica e comunque più piccola di una tradizionale pompa per la benzina o il gasolio.
Il nuovo standard è supportato dai modelli Audi, BMW, Chrysler, Daimler, Ford, General Motors, Porsche e Volkswagen : nomi importanti che aumentano le possibilità di una sua adozione a livello globale. Il principale beneficio delle nuove prese è quello della flessibilità: il sistema di ricarica combina in sé la possibilità di ricaricare da reti a corrente alternata sia monofase che trifase, nonché dalle reti domestiche a corrente continua e delle stazioni pubbliche con sistema di ricarica ultraveloce in corrente continua.
Il sistema riesce a sopportare tensioni fino a 500 volt e intensità fino a 200 ampere (ovviamente valori così alti non sono presenti presso abitazioni private, ma solo nelle stazioni di ricarica rapida). Questo significa che un veicolo elettrico compatibile potrebbe ricaricarsi in soli 15-20 minuti.
I primi veicoli che adotteranno lo standard J1772 sono attesi per il 2013.