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04/11/11

Great Pacific Garbage Patch


trash_vortex
Qualcuno la chiama la Great Pacific Garbage Patch, altri Pacific Trash Vortex, ma a prescindere dal nome, l’enorme isola di rifiuti di plastica che galleggia nell’Oceano Pacifico, indicata anche tra ipeggiori disastri ambientali della storia, continua a crescere inarrestata, affermandosi, di fatto come la più grande discarica del Pianeta.
Le decine di milioni di tonnellate di rifiuti che galleggiano tra le coste del Giappone e quelle degli Stati Uniti, aumentano sempre di più e hanno raggiunto livelli definiti “davvero allarmanti” e, stando agli oceanografici ha raggiunto un’estensione “quasi doppia rispetto a quella degli Stati Uniti”.
E dentro quest’isola che, per via delle particolari correnti convoglia a sé la spazzatura dell’oceano pacifico, è possibile trovare di tutto dai sacchetti di plastica a palloni da calcio, dai mattoncini lego a scarpe, borse e milioni di bottiglie e lattine. Oggetti che inquinano il mare e che, stando agli esperti, proverrebbe per un quinto dai rifiuti di navi e piattaforme petrolifere.

Come spiega lo scienziato Marcus Eriksen al Fatto Quotidiano, la Garbage Island non è visibile dal satellite in quanto sarebbe collocata appena al di sotto della superficie marina, fino a 10 metri di profondità. Venne scoperta alla fine degli anni ’80 dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) e si divide in due blocchi: : “Uno a circa 500 miglia marine dalle coste californiane, ed uno al largo di quelle giapponesi connessi dalle correnti che ruotano in senso orario attorno ad essi”.
E in questo mare di spazzatura è possibile ritrovare anche materiali risalenti agli anni ’50. Ciò dipende dal fatto che le materie plastiche non essendo del tutto biodegradabili, pur disintegrandosi in pezzi piccolissimi nel corso del tempo, non si eliminano completamente e i polimeri che le compongono finiscono per arrivare nella catena alimentare, scambiati per plancton e magiati dalla fauna marina.
Ma quanta plastica c’è esattamente nel Trash Vortex? Secondo l’Unep già nel 2006 ogni miglio quadrato di oceano conteneva 46mila pezzi di plastica galleggiante, arrivata oggi a oltre 100 milioni di tonnellate e, stando a quanto descritto da Charles Moore, a cui si deve l’attenzione mediatica sul fenomeno “questa massa galleggiante potrebbe raddoppiare le sue dimensioni entro il prossimo decennio”.
Una delle cause individuate proprio da Moore sarebbero i sacchetti di plastica che in Italia, per la prima volta all’avanguardia ed esempio per tutte le altre Nazioni, sono stati vietati. E se c'è già chi ipotizza di costruirci sopra un vero e proprio nuovo mondo, un'isola di plastica da abitare, rimane il fatto che sul fronte della bonifica di quest'area, è proprio il caso di dire, siamo ancora in alto mare.

Cambiamenti climatici: i paesi più a rischio:


Quali sono i Paesi e le città più a rischio a causa del surriscaldamento globale e dei cambiamenti climatici? A rivelarlo è il Climate Change Vulnerability Index del centro ricerche Maplecroft, nella sua ultima edizione, resa nota alla stampa nei giorni scorsi. Il rapporto cataloga come a ‘rischio estremo’ ben 30 paesi, tra cui BangladeshIndiaMadagascar, Nepal, Mozambico, Filippine, Haiti, Afghanistan, Zimbawe, e Myanmar (vedere cartina).
Nella cartina pubblicata (cliccandoci sopra è possibile ingrandirla), è facile individuare, grazie alle gradazioni di colore, i Paesi a più alto o basso rischio. Tra quest’ultimi troviamo anche l’Italia, posizionata in 124esima posizione, dopo la Cina (98esima posizione) e prima degli Stati Uniti (160^). Il Paese più sicuro, all’estremo della classifica pubblicata dalla Maplecroft, troviamo l’Islanda.
Come viene stilato il rapporto. Il Climate Change Vulnerability Index ha preso in considerazione le 20 città la cui popolazione crescerà di più da qui al 2020. Quella più a rischio è la capitale del Bangladesh, Dacca, seguita da Chittagong, Addis Abeba, Manila, Kolkata e Jakarta. Ad alto rischio ci sono anche Chennai, Mumbai, Kinshasa, Karachi, Lagos, Luanda, Kabul, Lahore, Delhi e Guangzhou, mentre a rischio medio ci sono Khartoum, Shanghai, Pechino e il Cairo.
Nonostante l’Italia sia tra i Paesi a basso rischio, osservando la mappa disegnata dal rapporto non mancano anche da noi aree vulnerabili: i colori più scuri si concentrano principalmente in SiciliaSardegna e nella pianura Padana occidentale. Essendo il tema di grande attualità, a causa degli ultimi avvenimenti in Liguria e in Lunigiana, ne approfittiamo per segnalare – per chi volesse dare un contributo concreto in favore delle popolazioni colpite dall’alluvione – la raccolta lanciata da TG La7 e Corriere della Sera. E’ possibile devolvere 2 euro inviando un semplice SMS al 45500 da numerazioni TIM, Vodafone, Wind, H3G, PosteMobile, CoopVoce, Tiscali Mobile, Nòverca, Auchan Mobile. Per chi volesse contribuire da rete fissa, basterà una semplice chiamata, sempre al 45500, da rete Telecom Italia, Tiscali, Fastweb o TeleTu (il servizio è attivo fino al 28 novembre 2011). In alternativa, i versamenti si possono inoltre effettuare al conto corrente IT 80 O 03069 05061 100000000567, indicando come beneficiario “Un aiuto subito. Alluvione Levante ligure e Lunigiana” presso Banca Intesa Sanpaolo, filiale di Roma, viale Lina Cavalieri 236.

Ecopass a Milano, le ultime buone novità:


Primo passo avanti nell’annosa questione dell’accesso dei veicoli al centro città in una delle più trafficate città d’Italia, che, si spera, farà da apripista anche ad altre realtà del nostro paese.
Il neo-sindaco di Milano Giuliano Pisapia l’aveva nel suo programma ma si sà come le promesse elettorali siano quanto di più evanescente… Eppure per una volta sembra diventata una realtà. L’ecopass che è presente a Milano dal 2008 come tassa sull’inquinamento – una Pollution Charge che premia chi inquina di meno – dal 16 gennaio 2012 diventa una vera e propria tassa sul traffico sul modello della londinese Congestion Charge.
Così come era stato concepito, far pagare le auto più inquinanti e dunque le più vecchie, l’ecopass finiva con il diventare un balzello per chi non si poteva permettere una vettura nuova meno inquinante. Aiutando di fatto i più ricchi.
Il nuovo ecopass farà pagare a tutti 5 eur per poter accedere entro la cerchia dei bastioni, la parte più antica e centrale di Milano.  Chi possiede invece mezzi vecchi e inquinanti non potrà proprio passare.
Ovviamente c’è già chi grida allo scandalo! I negozianti e chi si occupa di distribuzione e trasporto merci vuole una deroga per poter accedere liberamente al centro cittadino invocando terribili disfatte economiche che sicuramente si abbatteranno sulo loro business già duramente provato dalla crisi. Allo studio una fascia di rispetto (la mattina) per le consegne ma sempre con un ecopass scontato.
La realtà invece, lo sappiamo, è diversa. Londra ha una tassa sul traffico (qui trovi in cosa consiste e come pagarla) ben più alta della nostra (14 eur) da quasi 5 anni e le più recenti statistiche hanno evidenziato come in realtà il giro di affari dei negozi che sono all’interno della zona soggetta al pass sia aumentato. Segno questo che l’aumento dei pedoni permette di avere maggiore attenzione alle vetrine e fà lievitare gli acquisti, anche con la crisi.
Ben venga, finalmente una piccola tassa che può aiutare a vivere meglio le nostre trafficate città e amigliorare la loro pessima qualità dell’aria. E speriamo anche che altri centri imitino Milano.

Rigenerare i computer, le nuove frontiere green dell'elettronica:


corriere.it

La nuova professione che si è inventato il 39enne milanese Marco Gialdi

MILANO - Rigenerare computer per dargli una seconda vita sul mercato, cambiando pezzi di hardware, estetica e sistemi operativi. È questa la professione di Marco Gialdi, 39enne imprenditore milanese che, grazie alla sua visionaria idea di «rigenerazione informatica», in soli tre anni è riuscito con le sue macchine, anagraficamente vecchie ma totalmente rinnovate, a sbaragliare il campo del pc usato. Vendendo computer rigenerati, operativamente come nuovi, a partire da 100 euro. E, conquistandosi una fetta di mercato, quella dei prodotti elettronici riutilizzati, ancora di nicchia nel nostro Paese.
MESTIERE NUOVO - Un mestiere inventato quasi da zero, a parte la formazione da perito elettronico informatico e, come racconta lo stesso Gialdi, «nato per caso nel 2007 davanti a una birra». Una scommessa al buio che, in una manciata di anni, è riuscita a rigenerare anche la stessa sua azienda. Aprendo anche una nuova speranza per l'Italia sul tema del riutilizzo elettronico, una pratica, secondo le direttive europee, ancora più importante del riciclo. La forza dei sogni e l'etica imprenditoriale - Un’impresa famigliare, la Fastinking di Gialdi, che negli anni Novanta riciclava toner e nastri per stampanti, fiorente e con un trend di crescita del 40% fino al 2004, ma che rischiava di chiudere i battenti e di diventare una delle vittime del Sud-est asiatico e dei loro prezzi concorrenziali. Per poi tornare, nel 2008, sulla cresta dell’onda grazie alla rigenerazione dei pc. Con l'apertura di un nuovo ramo aziendale, chiamato appunto Rigeneriamoci, cominciato con il passaparola, tra amici e conoscenti, per poi allargare il giro alle compagnie di assicurazione, alle banche e alle multinazionali. E che, a oggi, ha fatturato quasi 300 mila euro. Rendendo Gialdi un temibile competitor sia per i broker europei a caccia di tecnologia usata da rivendere e spedire nei Paesi emergenti, sia per le organizzazioni malavitose che operano nell'esportazione illegale dei rifiuti elettronici.
RACCOLTA E RICICLO - «In Italia, soprattutto per quello che riguarda il business dei computer usati», afferma Danilo Bonato, presidente del centro di coordinamento Raee, ossia dei consorzi che in Italia si occupano della raccolta dei prodotti elettronici, «la situazione, purtroppo, è ancora troppo poco trasparente. Ben vengano, quindi, imprese pulite come quella di Gialdi che certificano la tecnologia ritirata. La speculazione sulle materie prime», puntualizza Bonato, «ad esempio il rame delle schede madri, è un pericolo insidioso perché genera il traffico malavitoso e incontrollabile dei rifiuti elettronici. Infatti, sono ancora troppi quelli esportati illegalmente, con il rischio anche di drammatiche conseguenze ambientali, visto che la maggior parte finisce in Paesi sottosviluppati come il Ghana e in alcune zone dell'India e della Cina».
RIGENERAZIONE TECNOLOGICA - «Far rivivere qualcosa», afferma Gialdi, «in questo caso i prodotti informatici, è un concetto molto lontano da quello del riciclo. Che prevede principalmente la trasformazione di un oggetto non più usufruibile al suo stato originale in un altro completamente nuovo. Ad esempio», spiega il rigeneratore, «riciclare è convertire una bottiglietta di plastica in una borsetta all’ultima moda. Invece la rigenerazione – puntualizza Gialdi– è qualcosa di totalmente diverso. Perché far rivivere con la stessa funzione una macchina considerata terminale, vuol dire allungarle la vita con la stessa funzione d’origine». E di vite tecnologiche, il dottore dei computer, in questi ultimi anni, è riuscito ad allungarne veramente tante. Visto che si possono contare più di mille macchine rigenerate. Che, tra cambio di processori, ram e schede video hanno avuto l’opportunità di una seconda vita.
DOCTOR PC - «I vecchi terminali», spiega Gialdi, «dopo un’accurata pulizia che prevede, oltre al ricambio delle componenti interne, il ripristino delle configurazioni e anche l’eliminazione dei graffi in superficie, possono tornare perfettamente funzionali». Spesso, grazie anche all’installazione di sistemi operativi open source, come Linux, che consentono ai vecchi computer con potenzialità di base limitate di appoggiarsi a server esterni per continuare a fare il loro lavoro. «Questa opzione», conclude Gialdi, «è molto richiesta dalle aziende che hanno basato i loro processi e gli impianti industriali su terminali molto vecchi, magari degli anni Ottanta, e che, con questa sistema possono continuare a fare le stesse operazioni senza essere costrette, ogni volta, a rinnovare il parco macchine».
RIFIUTI ELETTRONICI – Una nuova vita per i prodotti tecnologici che, come auspica Danilo Bonato, in futuro potrebbe alleggerire anche il lavoro svolto dal Raee. Attualmente impegnato sul territorio italiano con 3.100 isole di raccolta ecologiche per lo smaltimento dei rifiuti elettronici. «Purtroppo», dice Bonato, «per la raccolta c'è ancora un grande divario tra il nord e il sud Italia. Anche se negli ultimi due anni abbiamo raddoppiato il nostro di smaltimento elettronico, innalzandolo da 2 a 4 chilogrami a persona. Con picchi di 7 chili al nord. Ancora poco», conclude Bonato, «se si pensa ai 16 kg prodotti per ogni abitante nei Paesi del Nord Europa, ma un cambio di marcia significativo soprattutto, dopo la recente modifica della direttiva Ue». Infatti, la proposta appena presentata dalla commissione Ambiente del Parlamento Europeo, prevede un impegno ancora maggiore sul riciclo dei rifiuti elettronici da parte degli Stati membri. La direttiva, già approvata in seconda lettura e che, a gennaio 2012, sarà votata in sessione plenaria per aprire il negoziato con il Consiglio Europeo, vede infatti tra i nuovi obiettivi oltre al recupero delle materie prime preziose anche la contabilizzazione dei rifiuti elettronici. Da farsi con una raccolta strategica, del 85% entro il 2016 per quelli realmente prodotti, e del 65%, tra il 2020 e il 2022, basata su quelli messi in vendita.

WWOF, il turismo eco-solidale alla scoperta di nuovi luoghi:



L’ospitalità è un concetto molto ampio che all’interno racchiude anche il valore dell’aiuto reciproco, del lavoro e della riscoperta della vita a contatto con la natura. E’ quello che in termini associativi esprime Wwoof (acronimo di:World Wide Opportunities on Organic Farms) che ha da quattro anni circa (due ufficiali) fondato la sua sezione italiana (qui il sito ufficiale). Che cosa propone l’associazione? Lavoro e aiuto in alcune fattorie italiane in cambio di ospitalità, contatto con la natura, cibo genuino.
In sostanza: trovo la fattoria Wwoof che richiede aiuto in una zona italiana o estera che mi interessa, faccio domanda presso l’associazione, questa stessa mi fornisce un’assicurazione contro gli infortuni e una tessera. Bisogna poi solo preparare le valigie. Le fattorie non si aspettano dei contadini esperti al vostro arrivo: pretendono solo motivazione e voglia di imparare. Mangerete direttamente dalle coltivazioni, anche perché molte fattorie Wwoof  fanno solo auto-produzione, cioè non vendono all’esterno i prodotti della loro terra. Naturalmente avrete degli orari di lavoro ben definiti e, quindi, anche del tempo libero. Potrebbe essere davvero un’esperienza ricca di stimoli.
Wwoof Italia nasce dall’esperienza della Wwoof britannica, nata 35 anni fa dall’idea di Sue Coppard, la fondatrice dell’associazione. Londinese e stressata dai ritmi della città, la donna ebbe l’idea di scambiare il suo lavoro con l’ospitalità in una fattoria biologica. Gradualmente l’idea è stata seguita da altre fattorie  e molti ragazzi e ragazze hanno voluto fare come Sue.
Così Wwoof è cresciuta e oggi è presente in 14 paesi con 344 fattorie ospitanti con una lista che è a vostra disposizione sul sito dell’associazione.  Insomma, un ottimo modo per fare di un viaggio un’esperienza che vi arricchirà da tutti i punti di vista.

Un altro passo delle acque in bottiglia a favore dell'ambiente; è il caso di NORDA:


Il Parco Regionale della Grigna Settentrionale, uno degli ambienti naturali più interessanti e intatti della Lombardia, sarà al centro di diverse iniziative di tutela del territorio in collaborazione con il gruppo acqua Norda, che ha la sua sorgente “storica” (quella di Daggio, una tra le più alte d’Europa) proprio lì. Il progetto prevede la costituzione di tre Parchi locali di interesse sovra comunale con l’obiettivo di creare un’interconnessione tra il Parco Regionale Grigna Settentrionale e i parchi delle Orobie Valtellinesi e delle Orobie Bergamasche. Il Progetto prevede la messa in atto di quattro azioni:
1. Redazione di uno Studio di fattibilità; 2. Coinvolgimento dei portatori di interesse per la condivisione delle risultanze dello Studio di fattibilità; 3. Diffusione a livello locale delle risultanze dello Studio di fattibilità; 4. Avvio delle procedure per l’istituzione dei 3 parchi locali.
Per attuare il Progetto, la Comunità Montana della Valsassina intende avvalersi di una partnership con Istituto Oikos Onlus (Organizzazione non lucrativa di Utilità Sociale) e della collaborazione di alcuni Comuni competenti per territorio, già disponibili a diventare “Soggetti sostenitori” del Progetto. La Comunità montana si avvarrà inoltre della collaborazione di Enti quali il Parco Regionale delle Orobie Bergamasche, ilParco Regionale delle Orobie Valtellinesi, la Provincia di Lecco, il WWF Lecco, che hanno già garantito la propria disponibilità a diventare anch’essi “Soggetti sostenitori” del Progetto. Per la realizzazione dei parchi locali è prevista l’istituzione di un Gruppo di Lavoro Tecnico Interdisciplinare costituito da esperti di gestione e governance del territorio ed esperti in conservazione della biodiversità e pianificazione ambientale (Istituto Oikos).
Il Progetto, già in essere, si concluderà nel marzo 2013 e Norda supporterà ulteriormente questa collaborazione con la Comunità Montana della Valsassina, inserendo il logo del Parco  Regionale della Grigna Settentrionale sulle etichette delle proprie bottiglie di acqua minerale naturale (vedere foto nell’articolo).

Anche la TOUR EIFFEL diventa green


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Parigi. Se vi chiediamo qual è il suo monumento simbolo, la risposta è più che scontata: la Torre Eiffel, mastodontica struttura costruita in occasione dell'Esposizione Universale del 1889, progettata per durare solo 20 anni, è ancora tutta in piedi, anche grazie alle ristrutturazionieffettuate nel corso degli anni. E nell'epoca in cui si diffonde sempre più l'attenzione per l'ambiente, neanche il grandioso monumento simbolo della Francia, ne è rimasto fuori. Il primo piano della Tour Eiffel infatti verrà a breve ristrutturato in chiave green con tanto di pannelli solari. 
Il primo piano della torre, ripreso 30 anni fa, accoglie ogni anno milioni di visitatori, anche se ormai i suoi padiglioni e le aree pubbliche risalenti agli anni '80 sono diventati obsoleti e inadeguati se messi a confronto con le aspettative dei visitatori e con gli standard tecnici vigenti. Da qui l'esigenza di rivederlo.
La riqualificazione del piano in particolare comprende la ricostruzione della sala di ricevimento e della sala conferenze trasformandolo in uno dei luoghi più esclusivi di Parigi, ma anche la ricostruzione del padiglione dei servizi per i visitatori, soprattutto ristoranti e boutique, la progettazione di un tour divertente ed educativo del museo, e infine la creazione di due spettacolari attrazioni che cercheranno in qualche modo di limitare il divario tra il monumento e la piazza antistante con un pavimento e delle balaustre completamente realizzate in vetro.
Più nel dettaglio, il rinnovamento green della Torre Eiffel avrà due obiettivi volti ad un maggior sviluppo sostenibile del monumento: l'accessibilità e la riduzione dell'impatto ambientale.
Accessibilità. Significa dare a tutti la possibilità di visitarla. Ancora oggi, gran parte del primo piano della Torre è inaccessibile ai disabili. La ristrutturazione permetterà a tutti i visitatori, indipendentemente dalla loro disabilità, di sfruttare tutto lo spazio e tutti i servizi e contenuti offerti.
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Impatto ambientale. Nuovi standard di costruzione, solare termicoeolico, idroelettrico,raccolta delle acque piovaneilluminazione a LED, oltre a diverse tecniche che contribuiranno a migliorare le prestazioni energetiche della Torre.
Secondo quanto previsto dal progetto, il piano della Torre Eiffel sarà concepito alla stregua di un luogo urbano, con le sue strade, i suoi palazzi, la sua centralità nonostante i 57m di altezza, in grado di offrire una vista dall'alto di Parigi ma al tempo stesso non troppo distante da terra, considerata l'altezza della Torre.
La ristrutturazione è stata curata dallo studio di architettura Moatti-Rivière, in consorzio con la società Bateg. In tutto saranno necessari 25 milioni di euro, finanziati interamente dalla SETE (Société d'Exploitation de la Tour Eiffel). E occorreranno soltanto18 mesi di lavoro tra il 2012 e il 2013, per rivedere il monumento, vecchio oltre 100 anni, rinascere a nuova vita, con un bel vestito verde.

Perchè scegliere un cosmetico BiO?! Pro e Contro e come riconoscerlo:

da corriere.it


La ricerca di uno stile di vita maggiormente in armonia con la natura e l’ambiente, che va dal nutrirsi di alimenti privi di pesticidi fino alla scelta dell’auto da guidare, non può certo dimenticare la cura per la propria persona. La cosmesi biologica nasce per soddisfare questa esigenza. Il biologico infatti è un sistema di coltivazione che esclude l’uso di sostanze chimiche, rispetta i cicli naturali del terreno e permette di catturare più CO2 rispetto alle coltivazioni convenzionali. Scegliendo un cosmetico con ingredienti biologici, quindi, si contribuisce a proteggere il pianeta.

Bio vs convenzionale – I cosmetici bio sono un sottoinsieme di quelli classici, di cui rispettano la legislazione, ma con più limitazioni. Ad esempio, a seconda dei disciplinari, devono essere sottoposti a controlli sulla tollerabilità cutanea e sull’efficacia del sistema conservante. I test animali sul prodotto finito sono oggi vietati sia per i cosmetici bio sia per quelli classici, anche grazie all’impegno negli anni del mondo del bio con le associazioni animaliste. Inoltre, nei prodotti bio non sono ammesse alcune classi di sostanze come i derivati del petrolio o i siliconi. Ciò impone un nuovo approccio formulativo che può dare origine a preparati con risultati equivalenti o a volte superiori ai prodotti classici.
Pregi e difetti – Sono composti da ingredienti naturali di cui l’uomo conosce vantaggi e pericoli da generazioni: per questo risulta più facile per il consumatore scegliere un principio attivo piuttosto che un altro, o viceversa evitarlo a causa di un’allergia. Con i moderni cosmetici di sintesi questa scelta è più complessa, perché pur essendo testati per essere sicuri, è inevitabile che si abbiano meno conoscenze storiche riguardo agli effetti sulla salute. Va poi detto che alcuni cosmetici bio si possono equiparare alle formulazioni sintetiche più di altri. Per i detergenti, ad esempio, il paragone per consistenza, qualità, gradevolezza è facile; nelle creme di bellezza, invece, la ricchezza di ingredienti e la «performance» del prodotto è tale da essere difficilmente replicabile con i paletti imposti dal bio. Si avranno così creme ricche di oli vegetali, più attive sulla pelle, ma meno profumate e meno scorrevoli di quelle ricche di siliconi. Il prodotto biologico non vanta, non vuole e non può vantare una sicurezza maggiore del preparato classico essendo anch’esso soggetto alle leggi sui cosmetici, che bandiscono dai prodotti sostanze come nichel e mercurio per tutelare la salute dei consumatori.
Conservabilità - Classici o biologici, i cosmetici, per legge e per buon senso, devono contenere conservanti. I cosmetici bio non possono impiegare quelli sensibilizzanti, disturbatori endocrini, liberatori di sostanze sospettate di essere cancerogene. Nonostante in etichetta si possa trovare la dicitura «non contiene conservanti», in realtà tali prodotti si avvalgono di sistemi innovativi o «non canonici» oppure si autoconservano grazie alla presenza di particolari componenti, in tutta sicurezza. Un efficace estratto vegetale con azione conservante si ottiene dal caprifoglio giapponese, la Lonicera Japonica.
«Naturale» non significa bio - Per riconoscere un cosmetico veramente bio da uno definito genericamente «naturale» l’unico indizio di riferimento è legato alla presenza del marchio di certificazione sulla confezione. In commercio si trovano molti prodotti «normali» che si fregiano dell’aggettivo «naturale» solo perché contengono una piccolissima parte di composti vegetali. Si tratta di una dicitura fuorviante per il consumatore, consentita dal fatto che il settore non è presidiato a livello normativo in maniera chiara.
Cosa cercare in etichetta - In tutta Europa non esiste una regolamentazione dei cosmetici biologici e pertanto questo tipo di prodotto non è soggetto a normativa obbligatoria. Va detto, però, che tendenzialmente i produttori certificano i loro preparati avvalendosi di uno degli enti di controllo - ICEA, CCPB, EcoCert, BDIH, Soil Association - solo per indicare i più diffusi in Italia e in Europa . La presenza del logo in etichetta rivela che l’azienda deo-cosmetica volontariamente ha deciso di sottostare a un disciplinare e di applicare le limitazioni e i controlli a esso associati. Ma che differenza c’è tra le diciture «cosmetico biologico» e «cosmetico con ingredienti biologici»? Il primo è costituito da almeno il 95 per cento di ingredienti vegetali da agricoltura biologica; il secondo contiene solo una parte di componenti vegetali bio, il resto proviene da coltivazioni convenzionali.
Certificazioni - In Italia le principali sono ICEA, CCPB e BioAgricert. In Europa i marchi più rilevanti sono EcoCert in Francia, BDIH in Germania e Soil Association in Gran Bretagna. Ogni organismo di controllo ha un suo protocollo e un marchio depositato che identifica i prodotti certificati. A livello europeo in futuro, probabilmente, resteranno solo due marchi: il Cosmos standard e il Natrue.
Il futuro – Per arrivare a una normativa unica a livello europeo, come per l'alimentare bio, il percorso è ancora lungo, ma il fatto che i disciplinari volontari si vadano riducendo a due costituisce un passo notevole. Bisogna attendere che vi sia il riconoscimento e la presa d'atto da parte della Commissione europea per una definizione del cosmetico biologico. Attualmente l'unico sistema pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea è quello relativo a EcoLabel cosmetico. Si tratta di un sistema di certificazione ufficiale riconosciuto a livello europeo ma poco noto al grande pubblico. Esso definisce l'impatto ambientale del prodotto ma nulla dice sul biologico.
Cosmos standard - Deriva dall’armonizzazione dei marchi ICEA, EcoCert e Cosmebio, BDIH, Soil Association. Cosmos dovrebbe presumibilmente diventare il modello armonizzato di riferimento nel campo della cosmetica biologica e naturale e i suoi scopi sono dare garanzie di trasparenza ai consumatori e promuovere l'uso del biologico in cosmetica. Da qui a cinque anni potrebbe sostituire le diverse certificazioni nazionali. Per garantire una cosmetica realmente naturale, Cosmos prevede due livelli di certificazione: Cosmos-Natural (senza obbligo di biologico ma con al massimo il 2% di materie prime di sintesi) e Cosmos-Organic (con precisi obblighi relativamente al biologico). Il disciplinare vieta l'utilizzo di nanoparticelle inferiori a 100 nanometri e l'impiego di piante Ogm. Un aspetto già osservato per il sistema ICEA e che è stato introdotto nel nuovo standard è la definizione dell'impatto ambientale del cosmetico.
Natrue – E’ nato in Germania su iniziativa di alcune aziende tedesche che stanno coinvolgendo anche realtà di altre nazioni. E’ un sistema che sicuramente si prefigge obiettivi meno elevati del Cosmos ma, come dicono gli operatori del settore, permette di ottenere da subito prodotti certificati. Natrue considera la percentuale di bio calcolando solo la parte «secca», ovvero escludendo l'acqua del prodotto. In questo modo rende più facile raggiungere quantità elevate di bio, poiché elimina un fattore di diluizione. Nel caso del Cosmos, invece, l’approccio è diverso: la presenza di biologico nel prodotto viene calcolata sul totale, considerando anche l’acqua. In questo caso la percentuale di estratti risulta ovviamente minore, in quanto sono dispersi nell'acqua della formulazione. Le quantità ottenibili sono notevolmente inferiori rispetto all'approccio Natrue, e ciò obbliga i produttori a inserire una dose maggiore di ingredienti bio se vogliono ottenere la certificazione relativa.
(Con la collaborazione del dott. Mario Zappaterra, chimico cosmetologo, consulente presso il Centro di Cosmetologia dell’Università di Ferrara)