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17/02/12

PETROLIO, quanto ne manca?


petrolio
A meno di dieci giorni di distanza l’una dall’altra, due notizie contrastanti si sono succedute in merito alla quantità di petrolio di cui potremo ancora usufruire.
Il 26 gennaio 2012, Nature, l’autorevole rivista scientifica americana pubblica un articolo dal titolo “Climate Policy: oil’s tipping point has passed” il quale, tradotto, significa che il punto di non ritorno per il petrolio è ormai superato, (riproposto in Italia dalla rivista Le Scienze e Internazionale) scritto da James Murray, fondatore del Program on Climate Change dell’Università dello stato di Washington e Sir David King, chief scientific adviser per il governo britannico tra il 2000 e il 2007. In sostanza. si dichiara che “la produzione di combustibili fossili di cui possiamo disporre è minore di quanto molti credano”.
Il 6 febbraio 2012, Bloomberg, il sito di informazione più accreditato dal mondo della finanza e degli affari pubblica i risultati di una ricerca effettuata dal Servizio Geologico degli Stati Uniti(USGS) riportata anche dal nostro Corriere della Sera nella quale si dice che le riserve di petrolio sono sufficienti per garantirci i prossimi 70 anni ai ritmi di consumo attuali.
A cosa è dovuta questa discrepanza di informazioni? Quali sono le argomentazioni che giustificano la prima e la seconda affermazione? Innanzitutto, è necessario premettere che l’allarme in merito alla presenza di “un picco del petrolio” è in giro da anni. Nel 1956, il geologo della Shell King Hubbert aveva calcolato che negli USA il picco di produzione petrolifera sarebbe stato raggiunto negli anni Settanta, per poi iniziare lentamente a declinare. Il dibattito degli ultimi quarant’anni è oscillato tra coloro che hanno continuato a discutere sulla veridicità del dato e coloro che invece hanno cominciato a posticipare la profezia apportando continui aggiornamenti sulle stime in merito alla presenza di riserve globali mai prese in considerazione prima.
Una dialettica di questo genere è  quella che sta alla base della divergenza tra i due articoli pubblicati recentemente. La coppia Murray&King dice che “il reale volume delle riserve accertate è oscurato dal segreto: le previsioni delle aziende petrolifere di stato non sono verificate e sembrano essere esagerate. Inoltre, e soprattutto, le riserve richiedono spesso dai 6 ai 10 anni di perforazioni e sviluppo per entrare a far parte dell’offerta, e nel frattempo avrà cominciato a esaurirsi qualche altro campo petrolifero più vecchio.”
Il servizio geologico degli Stati Uniti dichiara invece la presenza di 2 mila miliardi di barili di greggio nel sottosuolo, non ancora sfruttato. L’ottimismo deriva dal fatto che proprio negli ultimi cinque anni sono stati trovati nuovi giacimenti non conteggiabili fino a un decennio fa perché collocati troppo in profondità o in zone impervie come quelli nel nord dell’ Alberta (Canada) situati tra le sabbie bituminose, nelle valli andine della Patagonia, in Artico o nella Rift Valley in Africa orientale.
Se da un lato è soprattutto la fiducia nella tecnologia e la presenza di strumentazioni che consentono di monitorare meglio la superficie della terra, trivellare fino a 8 chilometri di profondità o in mezzo a montagne saline che giustifica un futuro ancora attaccato al cordone ombelicale del petrolio, dall’altro è proprio lo scetticismo in merito alla qualità e all’efficienza dell’estrazione il motivo dell’allarme.
Murray&King non negano la presenza di nuove riserve, ma pongono l’accento sul fatto che, nonostante ciò, la produzione effettiva negli ultimi anni ha cominciato a declinare a tassi compresi tra il 4,5% e il 6,7% all’ anno. In sostanza “non stiamo restando senza petrolio: ma stiamo finendo il petrolio prodotto con facilità e a basso prezzo”. Se si mettono a confronti gliaumenti vertiginosi della domanda a partire dal 2005, anno in cui si è vissuto un vero e proprio cambio di passo in corrispondenza dell’entrata a pieno ritmo dei BRIC (Brasile, Russia, Cina, India) con questi dati, si capisce il motivo per cui negli ultimi anni il costo del petrolio ha visto sollecitazioni e notevoli rialzi.
Dal punto di vista di Bloomberg, invece, è stato proprio l’allarme preannunciato e continuamente riproposto da accademici e istituti di ricerca sul picco del petrolio a giustificare il fenomeno dei “150 dollari a barile” generando allarme e ogni volta puntando il dito su qualche previsione più o meno apocalittica. L’attuale costo del petrolio al barile, parzialmente stabile attorno ai 80-90 dollari (al netto delle minacce guerrafondaie dell’Iran), rappresenta lo specchietto sul quale tutti vogliono vedere una crescita economica ancora prospera e duratura.
Fanno notare però Murray&King che i costi dell’energia non sono affatto diminuiti per gli Stati sovrani né tantomeno per le famiglie (. Il caso dell’Italia è riportato come esemplificativo. “Malgrado un calo delle importazioni pari a 388.000 barili al giorno rispetto al 1999, l’Italia spende oggi 55 miliardi di dollari all’anno per importare petrolio, rispetto ai 12 miliardi del 1999. La differenza è prossima al corrente deficit della bilancia commerciale. Il prezzo del petrolio ha probabilmente dato un forte contributo alla crisi dell’euro nell’Europa meridionale, i cui paesi dipendono completamente dal petrolio estero.”
L’unica verità riconoscibile in entrambe le notizie è solo che il petrolio è una risorsa finita. Che sia tra dieci anni o tra settanta, andrà inesorabilmente scomparendo. Se il Fondo Monetario Internazionale fa orecchie da mercante e continua a prevedere una crescita mondiale del PIL al 4% annuo, alcune Nazioni tra le più illuminate come la Gran Bretagna o la stessa Comunità Europea iniziano a prepararsi a un mondo senza petrolio, mentre molte comunità dal basso hanno già deciso di cominciare a cambiare il loro ritmo di vita.

Mi vesto di ortica: la riscoperta di un tessuto ecologico,


Utilizzata dai soldati di Napoleone e in Germania durante le due guerre. Ma in Italia un progetto non ha funzionato

Gomitoli di tessuto d'orticaGomitoli di tessuto d'ortica
MILANO - Indossare l’ortica può sembrare curioso. Da questa pianta urticante non deriva il vestiario per un aspirante fachiro, ma un nuovo modo di abbigliarsi in linea con le esigenze ambientali. Le caratteristiche dell’ortica, infatti, rendono possibile un uso minimo di diserbanti e fitofarmaci e la possibilità di coltivare la pianta a livello locale riduce l’impatto ambientale del trasporto. La fibra dell’ortica, al di là dell’aspetto poco rassicurante, è simile a quella del lino. Ha buone caratteristiche antistatiche, traspiranti e termoregolatrici.
DALLA PIANTA ALLA CAMICIA - Per arrivare alla produzione di un tessuto da Ortica dioica, così come per altre specie vegetali da fibra, si procede alla raccolta degli steli, poi, questi vengono macerati in acqua per distruggere le sostanze pectiche che tengono legate tra loro le fibre. A questo punto, si procede alla stigliatura: vengono separate, cioè, le fibre dalle altre parti legnose. Infine, si procede alla filatura e alla tessitura. Non si tratta di una novità nel settore tessile, quanto piuttosto di una riproposizione: migliaia di uniformi dell’armata di Napoleone erano tessute in ortica. Molto più tardi, in Germania, durante le due guerre mondiali fu utilizzata per fronteggiare la scarsa disponibilità di cotone.
La pianta di orticaLa pianta di ortica
ITALIA: OCCASIONE MANCATA - L’Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr di Firenze nel 2007 aveva iniziato uno studio sull’impiego tessile dell’ortica. Laura Bacci, ricercatrice del progetto spiega: «L’ortica ha caratteristiche polifunzionali. Può essere utilizzata in tutte le sue parti: oltre all’impiego tessile del fusto, le foglie possono essere usate nella farmacopea e l’acqua di macerazione del fusto come antiparassitario naturale». Le piante erano coltivate in un campo sperimentale in provincia di Prato. Ma, nel 2010, con la scadenza dei progetti di ricerca e, quindi, dei relativi finanziamenti, il campo è stato smantellato.
PROBLEMI - Laura Bacci precisa: «Alcune piante madri del clone 13 (ortica da fibra) sono conservate presso la sede Ibimet di Bologna, per poter permettere future coltivazioni». Le ricerche effettuate hanno portato alla produzione di alcune rocche di filato. La dottoressa Bacci evidenzia alcune difficoltà: «La siccità estiva del centro Italia ha comportato interventi irrigui rilevanti. Con difficoltà tecniche ed elevati costi di produzione. Inoltre, la possibilità di produrre a livello industriale e poi commerciare tessuti in ortica, dipende da privati disposti a investire nella fase di estrazione della fibra, vero collo di bottiglia».
RICERCHE EUROPEE - A partire da progetti di ricerca universitari, invece, in Germania e Olanda è stato possibile ricostruire l’intera filiera. Questo successo è stato ottenuto grazie alla tradizione nella lavorazione della fibra di ortica e a condizioni climatiche favorevoli per la crescita delle piante e per la macerazione in campo degli steli. Per esempio, la Netl, piccola fabbrica a conduzione familiare olandese, presenterà entro quest’anno la sua collezione di abiti in fibra di ortica.

L'acqua «nascosta»: 200 litri per un latte macchiato,


Il consumo idrico globale si annida nei prodotti consumati e non solo nella parte liquida

MILANO - Quanta acqua consumiamo (e inquiniamo) in un solo anno? Tanta, troppa. In media 1.385 metri cubi a testa, ovvero 8.650 vasche da bagno. Le differenze a livello nazionale sono enormi. I più spreconi? Americani e cinesi. L'acqua dolce è un bene prezioso. Oggi più che mai. In molte parti del mondo le risorse scarseggiano. E questa non è la notizia. Sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) è uscita ora un’ampia ricerca sull’impronta idrica dell’umanità. Arjen Hoekstra e Mesfin Mekonnen dell’università di Twente, nei Paesi Bassi, hanno calcolato l’impronta idrica in volume per i diversi Paesi, suddividendo l’acqua incorporata nei prodotti consumati in piovana, da falde o di superficie e inquinata. Lo studio si basa su dati attuali, raccolti nel periodo 1996-2005.
LE CIFRE - Non a caso i ricercatori parlano di impronta idrica, vale a dire la traccia lasciata dall’uomo con la produzione agricola, quella industriale, quella domestica. È un indicatore che consente di calcolare l’uso di acqua, prendendo in considerazione sia l’utilizzo diretto che quello indiretto, del consumatore o del produttore. Alcuni numeri? Ogni americano utilizza in media 2.842 metri cubi d'acqua all'anno, in Cina sono 1.071, circa 750 in Bangladesh. Nelle due decadi prese in considerazione l’impronta idrica dell'umanità è stata di 9.087 miliardi di metri cubi all’anno. Nel frattempo la popolazione mondiale è però cresciuta e di conseguenza sono drasticamente aumentati anche i consumi.
LA PARTE DEL LEONE - La produzione agricola contribuisce per il 92% dei consumi, scrivono gli scienziati. La produzione industriale per 4,4 per cento e quella casalinga per il 3,6 per cento Cina, India e Usa utilizzano particolarmente tanta acqua. Rispettivamente 1.207, 1.182 e 1.053 miliardi di metri cubi ogni anno. Questi tre Paesi sono responsabili per il 38% dell’impronta idrica globale. Segue il Brasile (482 miliardi di metri cubi). La Cina è anche il Paese con la maggiore quantità di acque reflue: 360 miliardi di metri cubi, equivalenti a poco più di un quarto del volume globale (26%). Si capisce che Paesi come il Messico, l’Algeria e il Medio Oriente siano importatori netti d’acqua. Ma il Vecchio continente ne ha in abbondanza e malgrado ciò la importa; l’Australia no, eppure la esporta. Tra i principali importatori ci sono gli Stati Uniti (234 miliardi di metri cubi); il Giappone (127); la Germania (125); la Cina (121) e l’Italia (101).
LATTE MACCHIATO - L’impronta idrica di ciascuno di noi può essere riassunta anche con il classico esempio della tazza di caffè. Partiamo dall’agricoltore che ha bisogno di carburante e macchinari, la cui produzione necessita di grandi quantità di acqua. Per cucinare e lavare e per pulire il caffè i lavoratori sulle piantagioni si servono di acqua. Acqua è indispensabile anche per il processo di raffinazione, per il trasporto e per il commercio di transito. Infine, l'acqua potabile per riempire la macchina da caffè. Ma non basta. Bisogna aggiungere l’acqua del lavello; l'acqua per la produzione di latte e di zucchero. Insieme ai suoi colleghi, lo studioso Hoekstra è giunto alla conclusione che per un solo latte macchiato sono necessari almeno 200 litri di acqua - più di una vasca da bagno riempita fino all’orlo.

Quali caratteristiche deve avere una saponetta per considerarsi amica dell’ambiente?


Se la coscienza ecologica delle persone nella nostra società crescerà, allora la vecchia cara saponetta è destinata a tornare di moda. E forse a soppiantare il deprecabile utilizzo di flaconi di plastica come contenitori usa-e-getta per il sapone liquido (a meno che questi non siano ricaricabili alla spina, nel qual caso sono più che accettabili).
Ma quali sono le caratteristiche di una saponetta eco-compatibile? Esse vanno in due direzioni: ingredienti naturali e non dannosi per la salute e/o per l’ambiente e imballaggio a basso impatto ambientale. Saranno anche le nostre scelte di consumatori a dettare le tendenze future del mercato.
Per quanto riguarda gli ingredienti di base, i migliori rimangono: olio di oliva (il più usato per il sapone di Marsiglia e l’unico usato per il sapone di Aleppo), ma anche olio di palma, olio di cocco e olio di mandorle dolci. Altri preziosi ingredienti naturali sono il miele, l’argilla, le proteine del grano o dell’avena. Crusca e fiori di lavanda sono benvenuti: svolgeranno un’azione di peeling naturale. La provenienza degli ingredienti ‘oleosi’ da coltivazioni o foreste sostenibili e biologiche dovrebbero essere certificata sull’imballaggio. I saponi biologi non devono contenere coloranti e parabene. Le fragranze e le profumazioni devono derivare da oli essenziali di alta qualità. Infine, anche se non tutti sono d’accordo, secondo noi è meglio che il prodotto non sia stato testato su animali – del resto, se veramente nella saponetta tutto è naturale, il bisogno non sussiste.
A livello di packaging, sarebbe meglio optare per involucri o scatole in cartone o carta riciclata al 100%, stampati con inchiostro vegetale e assemblati senza colla – per esempio con un sistema di linguette o a scatola. Esistono anche barre di sapone al taglio che, oltre a essere più convenienti dal punto di vista economico, possono servire come profumatori di ambiente o di armadi fino a che non arriva il momento di tagliarne via un altro pezzo e di portarlo in bagno. E poi usarlo e usarlo fino al punto in cui – a forza di sciogliersi e schiumare – scompare tra le nostre mani nell’ultimo lavaggio, senza aver arrecato alcun danno, né alla pelle, né all’ambiente.

In Svezia sarà costruita una serra urbana di 18 piani:


Mentre in Italia si fa sempre più acceso il dibattito sulla cementificazione del territorio, all’estero c’è chi costruisce, sì, ma ottimizzando lo spazio e ai fini della produzione agricola. Il disegno che vedete qui accanto è il progetto dell’azienda svedese Plantagon International che costruirà una serra verticale di 18 piani nella città di Linköping.
L’obiettivo della Plantagon è rendere realistica la possibilità di un’agricoltura sostenibile e su larga scala anche nell’ambiente urbano. E questa serra sarà un primo modello per i loro progetti futuri. I lavori sono iniziati la scorsa settimana e l’edificio potrebbe essere completato in 12-16 mesi.
Si tratterà di un Centro di eccellenza per l’agricoltura urbana, un paradigma per tutta la Svezia, paese già molto propenso a utilizzare energia e tecnologia pulite. Il potenziale di edifici di questo tipo è straordinario, e l’estetica estremamente gradevole, anche per migliorare il fascino dello skyline cittadino.
Il progetto della serra è stato sviluppato in collaborazione con vari partner e prevede l’impiego di soluzioni integrate per risolvere i problemi di approvvigionamento energetico e idrico, surriscaldamento, smaltimento dei rifiuti e produzione di CO2. Sarà una sorta di progetto pilota per il mondo intero, che consentirà di raccogliere esperienze utilissime per la promozione dell’agricoltura urbana.