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30/03/12

Caffè Malatesta: un sorso di buone idee!


"Caffè Malatesta: un sorso di buone idee" presenta la storia di un caffè solidale a 360°, che si impegna a rendere virtuoso anche il processo di trasformazione che avviene in Italia. 
Caffè Malatesta: un sorso di buone ideeEnormi sacchi di iuta giacciono in un angolo del magazzino del gruppo d’acquisto di Lecco, diffondendo l’odore fragrante del loro contenuto: il caffè. Provengono da Tanzania, Indonesia, Guatemala, Honduras e Chiapas, ognuno con una varietà di grani verdi che non lasceranno il capannone, se non a compiuta lavorazione. La confezione finale in carta riciclata riporta una frase di Errico Malatesta, teorico e rivoluzionario anarchico vissuto alla fine dell’Ottocento, a cui il progetto è ispirato: «Incominciando col gustare un po’ di libertà si finisce per volerla tutta».
«Si chiama Caffè Malatesta perché è nato in una prospettiva di emancipazione in senso libertario» spiega Cristiano, uno dei giovanissimi componenti del «collettivo orizzontale di lavoratori». Sorto all’interno dell’Associazione Comunità della Sporta, è composto da sei persone, tutte tra i 20 e i 24 anni, che dal 2010 tostano, macinano, miscelano e impacchettano il caffè con l’intenzione di farne «uno strumento di solidarietà e non semplicemente una banale attività lavorativa». La macchina per la torrefazione, che occupava l’inutilizzata sede del gruppo d’acquisto, ha stimolato l’idea di un percorso che, partendo da una materia prima coltivata in condizioni dignitose, permettesse di rendere virtuoso anche il processo di trasformazione che avviene nel nostro paese.
«L’obiettivo è quello di rivalutare il lavoro artigianale e di emancipare noi stessi dall’impiego precario, tracciando un parallelo tra noi ventenni europei e i campesinos del sud del mondo» spiega Jacopo, 24 anni, laureando in biologia. Il caffè viene importato attraverso la centrale d’acquisto fair trade Mondo Solidale, la cooperativa tedesca Caffè Libertad che cura l’importazione dal Chiapas in Europa, e l’importatore Sandalj di Trieste. Il lavoro artigianale degli ultimi due anni si è focalizzato sulla ricerca della giusta ricetta, che ha portato a tre tipi di prodotto: 100% arabica (con grani provenienti da Honduras e Guatemala), mono origine (dal Chiapas) e una miscela delle varietà arabica e robusta.
Al momento l’utenza del Caffè Malatesta è costituita dal gruppo d’acquisto di Lecco, di cui fanno parte circa 190 famiglie, e da gruppi sparsi del Centro-Nord Italia, tra cui circoli Arci, negozi bio e una gelateria, per una distribuzione totale di circa 2 quintali al mese. Il collettivo cura anche la lavorazione del Caffè Durito, distribuito in Italia dalla Coordinadora. È con quest’ultima realtà nazionale, sorta come piattaforma di gruppi libertari con l’obiettivo di dare sostegno alle cooperative zapatiste in Chiapas, che è nata la recente collaborazione nella prospettiva di instaurare un rapporto più diretto con i coltivatori e di svincolare la torrefazione da circuiti esterni.
La Coordinadora facilita l’acquisto della materia prima tramite co-importazione (l’ordine minimo è dalle 16 alle 23 tonnellate, quantità che il collettivo per ora non è in grado di affrontare da solo) e, insieme alla rete europea Red pro Zapa e alle singole realtà coinvolte, stabilisce il compenso giusto per i coltivatori. «Cerchiamo di mantenere un prezzo accessibile» afferma Jacopo, perché «non vogliamo finire a vendere un prodotto “etico” riservato a un’élite, mentre gli sfruttati continuano a finanziare i discount, cioè ad oliare la morsa che li stringe». Così si legge nel testo che presenta il progetto. Una confezione da 250 grammi di Caffè Malatesta costa 3,90 euro (10 centesimi a tazzina), prezzo non superiore a quello del caffè convenzionale, in cui però il consumatore solitamente non sta pagando il lavoro manuale, il giusto compenso ai coltivatori e la qualità bio, ma la pubblicità e gli intermediari della distribuzione.
Nonostante le difficoltà iniziali, c’è un forte ottimismo per i risultati ottenuti sino ad ora. «Noi crediamo che non ci si debba limitare a un discorso di consumo critico, ma creare anche i presupposti per un lavoro dignitoso, al di fuori di contesti frustranti» dice Cristiano «ed è per questo che ci siamo appassionati a un’attività in cui il caffè non è che uno strumento di potenziale liberazione collettiva».

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